X – Un fremito

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Franz von Stuck, Sensualità, 1889 (acquaforte)

“È bellissima, oggi. È pallida. Mi piacerebbe sempre afflitta e sempre malata. Quando ella si colorisce, mi pare un’altra. Quando ella ride non posso difendermi da un vago sentimento ostile, quasi d’ira contro il suo riso.”

Gabriele D’Annunzio, Trionfo della morte, 1894

Nelle spire l’un l’altra stretti, d’antico abbraccio, sussurrano sguardo di malìa tra scivolose carezze. Entrambe le paia di pupille si configgono nell’irrimarginabile ferita dell’uomo, tutto vi dice “Sei mio”, la prima donna, il primo sì, l’invincibile fiera.
I sensi hanno da rispondere al tremolante appello del segreto voluttuoso. Non la fatalità dell’amor borghese che relegò Eros a vizio; no, non quel vino sazia più le lingue dell’abbandono in comunione carnale: qui ognuno stringe l’altro, entrambi richiedono, voluttuoso anche il macabro celato dietro ogni sospiro e pulsazione della vertigine di corpi che verrà. La pelle e i suoi incavi si schiuderanno, il tremolio dell’anima assopirà la mente, lento crepitio, ammicante, ogni altra forza divora; gli occhi da pretesa si inlucideranno in ammicco, sguardo vago, contagioso, che cerca il suo riflesso e tra gli ansiti il proprio nome.

Oh inquietudine di tumulti, nessun
vivente è innocente dalla tua
seduzione – non per aver giaciuto con
carne, ma per l’esser carne
e aver stigma per ombelico.

Fuoco sgorgato da scintille di rose
Lei, altare di piaceri, che il cuore
tiene tra le eterne lingue a seccar
sopra la pira della stirpe, Lei
per cui si volgono occhi al cielo
budella s’arrovelanno
tacciono coscienze
non sete non fame bensì destini la saziano.

Letti, musei di tormenti, tra pozze
le parole si scioglieranno in lamenti.

La terribilità della natura ha donato a questo animale civilizzato il soave dono della follia sensuale. Il potere evocativo dei corpi che combattono per liberarsi dalla fredda prigione del mondo è la nostra più antica rapsodia: turpe, celestiale, delirante, caritatevole, maledettamente mortale.
Le carni avvizziscono, ma con esse anche il temperamento. Le istantanee di passione iniziano a popolare sogni e immagini, a mescolarsi in intricate tessiture di passati ordite ad arte, per disperdere da noi l’odore altrui e relegare nella nostra personale caverna d’oblio l’eco lieve dei nostri gemiti amorosi, il ricordo del respiro stesso della specie.

Patrick Oliverio

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IX – Hen kai pan

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Max Klinger, Il rapimento della luce, 1894 (acquaforte e mezzatinta)

Al pari delle stelle non vi è schiera, molteplice e anonima, che possa sottrarsi al principio di individuazione. Questo processo muove dal gruppo, procedendo per isolamento, fino all’identificazione di un singolo il cui destino è il sacrificio in quanto rappresentante della specie, per la propria salvezza. Così il sacrificio del più antico dio conosciuto dall’uomo, il Sole, non comporta nient’altro che il salvataggio degli astri celesti nell’oscurità della notte.

Un processo simile accade in Grecia quando si volle trovare ad un satiro un nome appropriato: egli fu Pan. Nella lingua del suo popolo egli era « Tutto ». Giovanni Semerano, venuto dopo i Greci ma intento a indagare le radici di questo popolo, volle ricondurre questo nome ad un « volto » luminoso e chiaro: il volto del Sole.

Che nella sorte dell’emarginato si ripresenti il dramma originario, conosciuto nella storia dei generi come dramma satiresco, è evidente non appena si riprenda in mano una delle innumerevoli genealogie di questo demone. La ninfa Driope, sua madre, lo vide e scappò nel pianto, rifiutandolo appena nato; mentre gli dèi lo accolsero fra di loro con una risata. Quale altro destino possibile del resto per chi, già nella nascita, è ogni cosa?

Pan non mancò di onorare il debito verso chi lo accettò deridendolo. Così, durante l’attacco di Tifone agli dèi, egli si salvò dal mostro nascondendosi nelle acque del fiume egizio, mutandosi per metà in pesce. Il mostro passò senza riconoscerlo e gli dèi poterono così essere salvati. Come ricompensa per un simile gesto a Pan venne dato un nuovo nome – unico eppure impersonale – e un nuovo luogo in cui abitare fra le stelle e il sole, fra il molteplice e l’uno, nello spazio intermedio del cielo: nella costellazione del Capricorno.

Gli dèi non sono fuggiti, piuttosto essi sempre devono essere salvati. Ma che ne resta oggi di questa speranza?

“Quando sarai a Palode, annuncia che il grande Pan è morto.”

Plutarco, Il tramonto degli oracoli (trad. di Marina Cavalli e Giuseppe Lozza)

Mattia Macchelli

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VIII – In profonda ragione

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Max Klinger, Paure, 1881 (acquaforte)

Sul fondale della ragione, nella fanghiglia oscura sommossa da imprevedibili correnti, giace una perla come per diletto. Non avendo di che riflettere si imbroncia della propria sozzura, si rannicchia nel suo turpe nido sapendo di non poter essere mai scovata.

Le profondità diventano eterne una volta annusatane l’esistenza e gli abissi dai crepacci incalcolabili sommuovono le terre più dei sismi. Un faro trapassa le acque in superficie, poi, una perlina sul fondo dell’inconscio, tra sguardo e sguardo un interrogativo per un attimo la colora. I demòni aerei mutano in acquatici: sguazza la ragione nella pozzanghera della conoscenza, non si è più noi a rispondere alle domande – anche perché perlopiù non póste: quell’isola nell’oceano dell’irrazionale è spronfondata, i lumi scemati, un crepuscolo lungo una vita dissolverà le capricciose speranze del corpo di un’umanità che si raffredda dal calore della creazione.

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Francisco Goya, El sueño de la razón produce monstruos, 1797 (acquaforte, acquatinta)

Inebetitevi!

La veglia della ragione non crea prodigi, è nevrotica insonnia.

Inebetitevi, sbavate!

Cosa dovremmo voler essere da grandi?

Degli epilettici.

Patrick Oliverio

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