VII – Metafisica dello stilo

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Richard Müller, Meraviglia dell’ammaestramento, 1911, acquaforte

Griffelkunst, letteralmente arte dello stilo: per Klinger lo strumento per avvicinarsi al mondo dei simboli e delle metafore … Infatti, solo abolendo l’uso del colore, l’artista si libera dal valore descrittivo e naturalistico dell’immagine, affrancandosi dall’osservanza della realtà.”

Giulia Ballerini, Amore e Morte nei cicli grafici di Max Klinger

L’arte incisoria, come il teatro greco, possiede almeno due volti. Come la mano che penetra nel fango essa lascia un segno che può trasformarsi in impronta. Il primo di questi due termini, il segno, opera in negativo. Nel tempio di Apollo Didimeo il primo filosofo-scienziato venne sorpreso a disegnare un cerchio sulla terra raschiandola con un bastoncino. Si capisce allora quanto risulterebbe dannoso, nel nostro tentativo di addentrarci nel passato arcaico dello stilo, trascurare materie quali la scrittura, l’astronomia e i sistemi di computo. Tutte infatti giungono all’eterno attraverso l’astrazione. Penetrando l’involucro della materia il negativo ne infiamma il nucleo, rischiando così perfino di distruggerlo.

Ecco, il resto è semplice agire in positivo: la mano ripete il gesto lasciando la sua impronta sulla terra. Essa così la misura. Con la mano l’uomo scrive, con la mano conta, con la mano misura la distanza delle stelle nel cielo. Ma quel tempo l’eterno sfuggiva ai giorni, così l’uomo cercò per la sua memoria un supporto imperituro: le ossa e le pietre. Lo stilo sostituì così la mano, ma in cosa? Nel disegnare le fasi lunari, nel contarne i giorni, dunque misurando il tempo trasformandolo in spazio. Così l’astrazione conquistò l’eterno: preciso quanto ambiguo destino dell’uomo. Ma non si capirebbe questa ambiguità senza indagare più da vicino lo gnomone: un altro nome e un’altra anima dello stilo.

Ambiguo perché, nel trasformare il tempo in spazio, lo gnomone possedeva due differenti unità di misura. La sua precisione era infallibile, ma mentre come misuratore spaziale risultava uno strumento magnifico (riuscendo a calcolare ogni sorta di grandezze, anche quelle dei pianeti), nel misurare il tempo la sua funzione si riduceva ad un’unica attesa. Lo gnomone, infatti, era solamente in grado di calcolare il mezzogiorno: l’ora della malinconia in cui l’ombra delle cose è così corta fin quasi a scomparire.

Nella natura dello gnomone lo stilo ritrova così la sua anima duplice: onnipotente nel dominare la natura dello spazio terrestre, costretta ad aspettare nel mezzo del giorno il giusto tempo dell’arte: il tempo di Dio (kairos).

“Il carattere distruttivo non vede niente di durevole. Ma proprio per questo vede dappertutto delle vie. Ma poiché vede dappertutto una via, deve anche dappertutto sgombrare la strada … L’esistente lui lo manda in rovina non per amore della rovine, ma per la via che vi passa attraverso”.

Walter Benjamin, Il carattere distruttivo

Mattia Macchelli

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VI – Dell’amore inenarrabile

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Max Klinger, Nuovi sogni di felicità, 1887, acquaforte e bulino

“Pallide erano le labbra che vidi,
pallide le labbra che baciai, leggiadra la forma
con cui fluttuai in quella malinconica bufera.”

J. Keats, Un sogno dopo aver letto in Dante l’episodio di Paolo e Francesca, 1819


Alla domanda se si possa amare all’inferno, Dante fa rispondere Paolo e Francesa. Tra le nere bufere della passione, sbattuti dal costante vento gelido, i due amanti, per voce della nobile da Rimini, rincuorano lo smarrito moralista Dante. Poi cadde come morto, eppure nella condizione senza speranza di quel luogo lontano dalla salvezza e colmo dell’assenza di Dio, quella tetra ‘casa dell’eternità’, è stato permesso alle due anime di mostrargli che l’eterno supplizio può essere riscaldato da una fioca, inesauribile, fiammella di amore.

Non hanno bisogno di parole gli amanti per dire i loro affanni, precede la chiusa del sonetto in cui Keats, trasognante, vola bruciando in mezzo di tutto quel girone freddo e tenebroso. La commedia si esaurisce nell’atto di amore inenarrabile. Non si è il Paolo che solamente piange, si è il Paolo causa della perversione dell’altrui sentimento, l’orgoglio così umano della scelta di dannare insieme piuttosto che ascendere alla luce salvifica, è la scelta di rilucere nel riflesso del proprio amore tra l’oscurità di tempo e spazio. Lux in tenebris, umile arbìtrio dei vivi. 

Bufera di color pèrso, colore intriso di bile nera della malinconia, in questo sogno di felicità dal panneggio fluttuante. Si può amare all’inferno quando questo non ha più un luogo, quando le solitudini dell’Io e del cuore trasformano il corpo in un moribondo luciferino microaverno? Trasportati dallo specchio di un amore al limite del narciso, trasportati oltre i confini della veglia – moderno interregno di decaduta divinità, è nell’onirico che si scioglierebbero i nodi del senso, in modo tale che le Francesche di ogni tempo lentamente sfumano in figure sempre più eteree e ideali, soprattutto dopo che viene suicidata l’ultima Francesca, il suo nome era Emma Bovary.

Patrick Oliverio

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Gustave Dorè, Paolo e Francesca, 1861

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V – Copula

otto_greiner-il_diavolo_mostra_la_donna_al_popoloOtto Greiner, Il diavolo mostra la donna al popolo, 1898, litografia

Raccontano che una volta un uomo fece un patto di amicizia con un satiro. Sopraggiunge l’inverno e si fece freddo. L’uomo portava le mani alla bocca e ci soffiava su, e, al satiro che gli domandava perché facesse così, rispondeva che si scaldava le mani per il freddo. Più tardi, imbandita loro la mensa, poiché il cibo era molto caldo, l’uomo lo prendeva un pezzetto per volta, lo avvicinava alla bocca e soffiava. Il satiro domandava allora, di nuovo, perché facesse così; e l’uomo rispondeva che stava raffreddando il cibo perché era troppo caldo. E il satiro a lui: « Caro mio, se tu sei uno che dalla stessa bocca manda fuori caldo e freddo, alla tua amicizia io rinuncio! » .

Esopo, L’uomo e il satiro (trad. Elena Ceva Valla)

Sono state molte le epoche che hanno voluto vedere nella figura del satiro nient’altro che una sorta di uomo primitivo. La favola di Esopo sembra smentire questo assunto. Come ci ricorda Aristotele chi non ha bisogno degli uomini è una bestia o un dio (o un filosofo, avrebbe poi detto Nietzsche) ma, appunto, proprio la rottura del vincolo filiale da parte del satiro verso l’uomo sta a dimostrare che è proprio il satiro a poter fare a meno degli uomini: dunque è il satiro una bestia o un dio.

Tutto sembra giocarsi su quella “o” disgiuntiva laddove, per il satiro, sembrerebbe più corretto porre una “e” copulativa. In quanto esseri divini, seppur non immortali, i satiri debbono infatti essere situati in quel regno intermedio dell’anima propriamente apostrofato come demonico.

Nel satiro tutte le opposizioni sono conciliate, diversamente da quanto accade invece nell’umano Aristotele: capace unicamente di ragionare in termini di caldo-freddo, di sì-no. Così, l’uomo della favola. Il satiro semplicemente non può tollerare questa verità mutevole, che ora è questo ora è quest’altro. Eppure proprio il satiro sembra aver fatto dell’ambivalenza il proprio essere, com’è dunque possibile che rifiuti la lingua sibillina dell’uomo? Nient’altro che per quelle sue orecchie ferine pronte ad ammettere, come per le muse esiodee (le nuove ninfe, come ci ricorda W. F. Otto), solamente verità o menzogne simili al vero. Esse parlano e lo fanno per bocca dell’uomo, ma non attraverso l’uomo che prova freddo e fame.

Come pensava appunto Anassimene l’antico, non dobbiamo lasciare nella sostanza né il freddo né il caldo, ma bisogna considerarli come affezioni comuni della materia, che sopravvengono dopo i mutamenti. Anassimene infatti afferma che la compressione e condensazione della materia è fredda, mentre ciò che ha un tessuto rilassato è « allentato » (usando letteralmente proprio questa parola) è caldo. Perciò, secondo lui, non senza ragione si dice che l’uomo manda fuori dalla bocca sia il caldo sia il freddo.

Plutarco, Sul principio del freddo (trad. Giorgio Colli)

Mattia Macchelli

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IV – Il cavaliere di Praga

Chissà se l’inquieto boemo Rilke, nelle sue giovanili passeggiate per Praga, amasse soffermarsi davanti al Clementinum, nella Città Vecchia; un casermone barocco da cui in buie epoche si alzarono comignoli di libri bruciati, mentre nella propria cella il censore gesuita Koniáš con ascetica nevrosi compilava e perfezionava l’ Index librorum prohibitorum. Là, sulla parte sinistra dell’edificio di fronte, una statua di cavaliere scruta il lontano orizzonte in attesa di qualche cosa.

Nel sottobosco delle leggende si vocifera che il Cavaliere di Ferro sia stato scolpito cavo al suo interno. E’ lo spazio vuoto dalla Vita, liberata dalla Morte, e solamente un ammasso stante di ferraglia resta in fedele attesa del suo padrone. Chissà se Rilke, passeggiando per la Città Vecchia, davanti al severo Clementinum, avrebbe apprezzato quell’opera e con un sorrisetto ricordato la sua poesia di gioventù.

IL CAVALIERE

In fosca armatura d’acciaio,
via pe’l frastuono del mondo,
il cavaliere calvalca.
Ed ecco la luce e la valle,
l’amico, il nemico, il convito,
il maggio, la selva, l’amore;
e Dio – per migliaia di volte –
su tutte le strade del mondo.

Ma dentro la ferrea corazza
(tra maglie, tra sbarre di tenebra)
è accovacciata la Morte.

E pensa e ripensa:
« Oh, quando la ignota
spada ribalenante
balzerà dalla ferrea siepaglia
delle schiere nemiche,
a liberarmi da questo
tenebroso coviglio
ove prona e constretta trascorro
interminabili giorni,
sì ch’io ne balzi distesa,
vibrando di suoni e di canti?

Chissà se i giovani d’arme, al mattino della chiamata, quando nella corazza si dovevano raffreddare dal calore dell’amata; chissà se questi, tra le fessure di ferraglia, vedessero la morte o la speranza. Quanto difficile abbandonare lenzuola intrise di amore per cercare sangue straniero; e quante armature senza volto tornate al cospetto di fanciulle, la cui attesa – che le budella gli ha aggrovigliato come un insonne le lenzuola – è stata vana, poiché al posto di brucianti mani un metallico abbraccio di creatura cava gli porgeva, di se stessa, il cordoglio.

Patrick Oliverio

10435915_1005524739464160_4917430965647423827_nJosef Uhl, Alba, 1913 (puntasecca)

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III – Melanconia

Per Sophie, debole nei giovani polmoni, Novalis abbracciava la notte, attraverso vesti d’aria ne sfiorava le forme, ne piangeva la morte.

All’orizzonte passano stelle come pulviscolo in controluce: per gli insonni cronografi issati sul quadrante del cielo. Tra le nubi si apre l’idea dell’amata, giovinotta anche per il pensieroso Klinger; sullo stelo sboccierebbe un amore fecondo, ma come il fiore della purezza verginale s’incontra con la farfalla di carnale corruzione, solo la rinascita in sogno o in vento è speranza nei saturnini, nei flegmatici, nei sensibili al gelido tocco della Morte, non accettanti la terrena condizione di mortali bruchi. “Non v’accorgete voi che noi siamo vermi / nati a formar l’angelica farfalla”, odono Dante e Virgilio nella prima cornice del Purgatorio.

Patrick Oliverio

Novalis, Inno III degli Inni alla notte, Athenaeum, 1800 (trad. Giovanna Benporad)

Un giorno che versavo amare lacrime, che in dolore disciolta svaniva la mia speranza, ed io stavo solitario presso l’arido tumulo che in un breve oscuro spazio chiudeva la forma della mia vita – solitario come nessuno era mai stato, sospinto da indicibile angoscia – privo di forze, in me soltanto un senso di miseria, come mi guardavo intorno cercando aiuto, non potevo avanzare né indietreggiare, e mi aggrappavo alla fuggente vita, spenta, con infinita nostalgia: – allora venne dalle azzurre lontananze – dalle altezze della mia antica beatitudine un brivido crepuscolare – si spezzò d’un tratto il vincolo della nascita – la catena della luce. Svanì la magnificenza terrestre e il mio lutto con lei – confluì in un mondo nuovo e impenetrabile la malinconia – e tu, estasi della notte, sopore del cielo scendesti su di me – la contrada lentamente si sollevò; e sulla contrada aleggiò il mio spirito nuovo, liberato. Il tumulo divenne una nube di polvere – attraverso la nube io vidi le fattezze trasfigurate dell’amata. Nei suoi occhi posava l’eternità – afferrai le sue mani, e le lacrime divennero un vincolo scintillante, inscindibile. Millenni dileguarono in lontananza, come uragani. Al suo collo piansi lacrime d’estasi per la nuova vita. – Fu questo il primo, unico sogno – e da allora sento un’eterna, immutabile fede nel cielo della notte e nella sua luce, l’amata.

klin

Max Klinger, Notte, 1888 (acquaforte e acquatinta)

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II – Dialettica degli estremi

69 a tris

Max Klinger, Filosofo, 1910 (acquaforte e acquatinta)

“L’attitudine dell’artista è quella di esprimere la propria esperienza con quanta più vastità e fedeltà possibili: egli non può quindi nascondersi la metà più oscura del mondo, la stessa che lo assale e da cui cerca riparo, per concentrarsi unicamente su quanto è gaio e festivo. È necessario che le immagini da lui prodotte rechino almeno in parte traccia delle indicibili tensioni esistenti tra il desiderio, il presagio e l’esperienza di una possibile, perfetta felicità da un lato e l’orrore dell’esistenza dall’altro, l’orrore che talvolta ci assale urlando: è così del resto per i poeti e per i musicisti”.

Max Klinger, Pittura e disegno (Malerei und Zeichnung), 1891

Stando all’etimologia comunemente accettata, la parola greca “Chaos” indicherebbe una voragine scavata nella terra, un abisso, una fenditura tanto profonda da non farvi penetrare luce alcuna. Sorge qui la successiva ripartizione che pone in alto il monte Olimpo e in basso la valle del Tartaro, quasi a simboleggiare la distanza fra ogni polo metafisico rispetto al suo estremo opposto. Distanza che sembra impossibile da colmare per l’uomo comune, ogni giorno chiamato a decidere della propria individuazione, dunque incapace di sostare nel bel mezzo degli estremi. Non è dato decidere di non decidere perché questo non sarebbe appunto altro che un decidere, al massimo rimproverabile di una certa indifferenza verso il mondo (decidi pure tu se si tratta di un’indifferenza divina o infernale). Ironicamente, fra il bianco e il nero che vorrebbero dominare la nostra mostra, non sembra darsi la possibilità di alcun chiaroscuro.

Eppure c’è chi è riuscito a realizzare tutto ciò. Le opere della mostra stanno lì a dimostrarcelo: con i loro simboli impossibili da decifrare una volta per tutte, capaci persino di suscitare impressioni opposte fra loro quando l’opera è davvero riuscita. Chi può tanto, riuscendo così a congiungere Alto-Basso è solamente l’uomo che si affida ad una forza che oltrepassa la ragione con tutti i suoi estremi mal conciliabili. Esiodo lo sapeva ed è per questo che subito dopo il Chaos ha posto Eros il conciliatore. Sarà allora felice quel gruppetto di studiosi che, nella voragine del Chaos, ha voluto vedere il segno di una bocca le cui labbra, aprendosi per parlare, svelano l’abisso che sostiene ogni nostra parola. Se la tesi di questi studiosi fosse vera la poesia di Esiodo troverebbe così un illustre alleato nelle prime parole della Genesi, dove appunto si legge che “in principio era il Verbo”.

Ma persino nell’artista l’arte giunge dopo, a posteriori, come a colmare un bisogno resosi chiaro nella sua mente, dato che spesso il più grande baratro è quello che si apre fra le nostre idee e quella che è la concreta realtà. A volte le due cose possono essere molto distanti l’una dall’altra: l’idea dell’amore dall’amar concreto, così come l’idea della morte dalla sua realtà. Questo lo sa bene chi un po’ ha vissuto. Ma è servendomi di un concetto come la “guerra” che voglio chiarire quanto vado dicendo. Difficile non riconoscere quanta forza risieda nell’idea della “guerra”. I più grandi poeti hanno cantato la guerra, i più grandi pittori l’hanno rappresentata e quante volte noi stessi ci troviamo a combattere impugnando le parole quasi fossero armi. Ebbene, tutte queste idee belliche sono magnifiche, ma appunto solamente perché sono idee lontane dalla realtà. Non c’è infatti guerra fuori dall’arte che fattasi realtà sia ancora bella e magnifica come quando rappresentata nella sua idea.

Questa tensione è ciò che Klinger e i suoi colleghi hanno voluto rappresentare nelle loro opere: delle idee che tentano di realizzarsi e che, bloccate nel nostro subconscio, sono incapaci di liberarsi altrimenti che nel sogno. Nulla è più lontano dalla realtà di questi quadri, eppure essi stessi sono la realtà delle nostre idee e dei nostri istinti.

Mattia Macchelli

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