II – Dialettica degli estremi

69 a tris

Max Klinger, Filosofo, 1910 (acquaforte e acquatinta)

“L’attitudine dell’artista è quella di esprimere la propria esperienza con quanta più vastità e fedeltà possibili: egli non può quindi nascondersi la metà più oscura del mondo, la stessa che lo assale e da cui cerca riparo, per concentrarsi unicamente su quanto è gaio e festivo. È necessario che le immagini da lui prodotte rechino almeno in parte traccia delle indicibili tensioni esistenti tra il desiderio, il presagio e l’esperienza di una possibile, perfetta felicità da un lato e l’orrore dell’esistenza dall’altro, l’orrore che talvolta ci assale urlando: è così del resto per i poeti e per i musicisti”.

Max Klinger, Pittura e disegno (Malerei und Zeichnung), 1891

Stando all’etimologia comunemente accettata, la parola greca “Chaos” indicherebbe una voragine scavata nella terra, un abisso, una fenditura tanto profonda da non farvi penetrare luce alcuna. Sorge qui la successiva ripartizione che pone in alto il monte Olimpo e in basso la valle del Tartaro, quasi a simboleggiare la distanza fra ogni polo metafisico rispetto al suo estremo opposto. Distanza che sembra impossibile da colmare per l’uomo comune, ogni giorno chiamato a decidere della propria individuazione, dunque incapace di sostare nel bel mezzo degli estremi. Non è dato decidere di non decidere perché questo non sarebbe appunto altro che un decidere, al massimo rimproverabile di una certa indifferenza verso il mondo (decidi pure tu se si tratta di un’indifferenza divina o infernale). Ironicamente, fra il bianco e il nero che vorrebbero dominare la nostra mostra, non sembra darsi la possibilità di alcun chiaroscuro.

Eppure c’è chi è riuscito a realizzare tutto ciò. Le opere della mostra stanno lì a dimostrarcelo: con i loro simboli impossibili da decifrare una volta per tutte, capaci persino di suscitare impressioni opposte fra loro quando l’opera è davvero riuscita. Chi può tanto, riuscendo così a congiungere Alto-Basso è solamente l’uomo che si affida ad una forza che oltrepassa la ragione con tutti i suoi estremi mal conciliabili. Esiodo lo sapeva ed è per questo che subito dopo il Chaos ha posto Eros il conciliatore. Sarà allora felice quel gruppetto di studiosi che, nella voragine del Chaos, ha voluto vedere il segno di una bocca le cui labbra, aprendosi per parlare, svelano l’abisso che sostiene ogni nostra parola. Se la tesi di questi studiosi fosse vera la poesia di Esiodo troverebbe così un illustre alleato nelle prime parole della Genesi, dove appunto si legge che “in principio era il Verbo”.

Ma persino nell’artista l’arte giunge dopo, a posteriori, come a colmare un bisogno resosi chiaro nella sua mente, dato che spesso il più grande baratro è quello che si apre fra le nostre idee e quella che è la concreta realtà. A volte le due cose possono essere molto distanti l’una dall’altra: l’idea dell’amore dall’amar concreto, così come l’idea della morte dalla sua realtà. Questo lo sa bene chi un po’ ha vissuto. Ma è servendomi di un concetto come la “guerra” che voglio chiarire quanto vado dicendo. Difficile non riconoscere quanta forza risieda nell’idea della “guerra”. I più grandi poeti hanno cantato la guerra, i più grandi pittori l’hanno rappresentata e quante volte noi stessi ci troviamo a combattere impugnando le parole quasi fossero armi. Ebbene, tutte queste idee belliche sono magnifiche, ma appunto solamente perché sono idee lontane dalla realtà. Non c’è infatti guerra fuori dall’arte che fattasi realtà sia ancora bella e magnifica come quando rappresentata nella sua idea.

Questa tensione è ciò che Klinger e i suoi colleghi hanno voluto rappresentare nelle loro opere: delle idee che tentano di realizzarsi e che, bloccate nel nostro subconscio, sono incapaci di liberarsi altrimenti che nel sogno. Nulla è più lontano dalla realtà di questi quadri, eppure essi stessi sono la realtà delle nostre idee e dei nostri istinti.

Mattia Macchelli

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